"Non ero più una bambina e avevo paura.
Attraversavo quel tempo in cui ciò che mi faceva più paura era proprio ciò che mi avrebbe fatto vincere la paura. L'emozione e la sua potenza, il senso vago e terribile della possibilità della felicità, come una corsa rischiosa lungo terreni incolti senza divieti di calpestare, al buio di un istinto inselvatichito e senza voce, tenuto in disparte, disattivato e sfiduciato forse perchè giudicato troppo maleducato.
Avvertivo sovente come una previsione che mi tentava, la percezione intensa e formidabile di qualcosa che doveva ancora venire; aveva a che fare con un mistero dolce, l'esistenza emozionante di una qualche avventura poetica, era una specie di stato febbrile, a volte un presentimento come un breve lampo, un piccolo pieno perduto nel vuoto, un istante di libertà intenso e lirico che galleggiava dentro, al largo del cuore delle solitudini.
Con buona probabilità doveva esistere in me, c'era un nido, un covo, dove tutte quelle emozioni e sensazioni erano possibili, dove vibrava quella passione di vivere calda e terribile, certi timori desti, e già certi rimpianti, c'erano orme che le cose avevano impresse di già, come i volti che il dolore aveva assunto e che il senso di una diffusa infelicità aveva reso indimenticabili.
Era stata coltivata su tutto, quella convinzione, piuttosto quella abitudine, a tenerlo tutto il dolore, senza lasciarlo fuggire e senza sfuggirlo; timida e precoce poi, vi era cresciuta accanto, come i papaveri al grano, una acerba capacità di compatire, come un udito fine, empatico e amoroso, con cui mi facevo tutt'uno, una tenerezza dolente, a volte una pena suscettibile e incendiaria che mi impediva di essere felice accanto ad altri che non lo fossero. No, non ero più una bambina.
C'era già, anche se quella bambina non lo sapeva, uno spirito incline a contemplare il fondo del vaso e anche il suo orrore e poi, da sempre, un'immaginazione salvifica e pericolosa che quella campanella d'inizio, col suo squillo persistente e inaspettato, come un acquazzone d'estate, aveva svegliato e finalmente richiamato.
La paura tuttavia era il gigante della mia esistenza, il genitore possente e assidio che mi lasciava da sempre crescere senza tradire nessuno, una sorta di idolo nero che mi teneva al riparo dagli aspetti consueti e incapienti delle necessità dell'esistenza quotidiana.
Così mi avvinghiai a lei e vi rimasi legata, fu l'unica a tenermi compagnia, piantandomi sull'orlo di una voragine solitaria.
...c'è qualcosa di incredibilmente bello nell'infelicità, fu la prima cosa che pensai ed ebbi voglia di piangere; ma più per la forza con cui sentivo che la vita bussava, era la sua offerta che mi faceva trepidare e per la quale sentivo già nostalgia, un rimpianto, come se l'avessi perduta prima ancora di averla goduta. Le sue stesse possibilità mi emozionavano, eppure mi sembrava di non esservi compatibile, così mi ritrovavo immobilizzata come uno scorpione in mezzo al deserto, quando sente avvicinarsi il pericolo; non era la tristezza che mi faceva piangere, era la promessa della felicità che avvertivo e per la quale non mi sentivo capace, come per una convinzione non la potessi abitare, che non fossi in grado di sodddisfarla.
Non l'avrei mai seguita la felicità. Non la felicità; come se la mia terra d'origine non la conoscesse, come un uso e costume straniero, un mistero a cui mi sarei presto arresa, una malattia esantematica scampata.
Non la felicità. Non per me."
Il Terrazzino dei Gerani Timidi.
Anna Marchesini.
Descrive alla perfezione me in questo momento.